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Whatever it takes - School for Curatorial Studies Venice

Whatever it takes – School for Curatorial Studies Venice

| On 16, Lug 2020

La vera sostanza delle nostre economie è il bisogno concreto, una situazione di reale interdipendenza tra persone. Lo scambio di beni come metodo universale per la creazione di relazioni umane, il nuovo esperimento sociale della School for Curatorial Studies di Venezia.

di Redazione Art Vibes


Picture: Whatever It TakesSchool for Curatorial Studies Venice


 

Testo critico di School for Curatorial Studies Venice

 

Bisogna usare un’astratta unità di misura per lo scambio economico; è questo il senso della frase del 26 Luglio 2012 di Mario Draghi, bisogna avvalersi del sistema interbancario whatever it takes.
Il presidente della BCE dichiarava che lo scambio economico non dovesse proseguire tout court, poiché poteva continuare con il baratto e il mercato nero o su una nuova piattaforma di scambio architettata ad hoc. Draghi sosteneva innanzitutto che lo scambio economico dovesse continuare nel 2012 utilizzando uno specifico dispositivo globale: il sistema bancario internazionale e le valute nazionali (più la valuta sovranazionale della UE).

Whatever it takes, progetto ideato a gennaio 2020 già prima dell’emergenza Coronavirus, esclude invece l’utilizzo di tutte le valute esistenti, per rendere evidente quello che durante i mesi del lockdown è diventato una certezza per tutti: la vera sostanza delle nostre economie è il bisogno concreto, una situazione di reale interdipendenza tra persone.

Nonostante le banche centrali registrino i flussi di debito e credito e il sistema monetario renda più frequente ed organizzato lo scambio, non sono questi flussi la vera sostanza dell’economia. L’utilizzo globale del fiat money è soltanto la piattaforma per scambiare servizi e trovare risposta a bisogni reali. La sostanza di ogni tipo di economia è l’imperfezione umana, la fondamentale carenza delle nostre esistenze.

Nel libro quinto dell’Etica Nicomachea, dedicato alla giustizia, Aristotele sostiene: “senza calcolo non può esserci nessuna comunità” affermando poi che quello “che tiene tutto insieme” non è l’unità di misura o qualunque forma di money-of-account, ma il fatto che nessun essere umano è autosufficiente e perfetto.
L’uomo vive, come racconta anche la leggenda di Eros e Il mito degli Androgeni sull’origine dell’uomo, in un permanente stato d’eccezione essendo perennemente bisognoso e dipendente da altri.
Uno dei compiti principali delle Banche Centrali è mantenere la stabilità dei prezzi, dipendenti però dal bisogno reale: ci sono momenti in cui il petrolio può costare zero, una mascherina da 25 centesimi diventare introvabile, inestimabile.

Anche l’individuo più ricco, a lungo termine, non può auto-sostenersi in autoisolamento se non sostenuto da servizi. La sua ricchezza è un fatto sociale e politico, dipende inevitabilmente da altri. Come sono essenziali il calcolo e la finanza per avere un’astratta unità dei nostri bisogni, allo stesso modo lo sono i bisogni reali stessi.

Se il sistema monetario calcola, ciò che definisce questa valuta sono i nostri bisogni più essenziali. Sono essenziali gli spazzini, i camionisti, i lavoratori agricoli, gli infermieri e i medici, gli scienziati e così tutte le professioni dal ristoratore all’artista, in quanto tutte le professioni in una società basata sulla divisione del lavoro risolvono i bisogni di altri. Il mercato dell’arte con le sue specificità non è un’eccezione.

Una delle fonti che ha maggiormente ispirato gli artisti e i curatori coinvolti è il testo del 1923 di Marcel Mauss, Saggio sul Dono, nel quale l’antropologo tenta di riconciliare la sua epoca, già fortemente basata sul calcolo finanziario, con delle forme di scambio simbolico del passato antropologico. Tentativo che troviamo anche in Walter Benjamin, Émile Durkheim e Claude Lévi-Strauss.
Esistono e sono sempre esistite forme di scambio economico che si affidano molto di meno alla funzionalità del calcolo astratto. Il saggio di Mauss invita a riscoprire il senso della politica confrontandosi con forme tradizionali di “moralità di gruppo”.

“Occorre che i ricchi” così Mauss nel 1923, “tornino – liberamente e anche forzatamente – a considerarsi come una specie di tesorieri dei propri concittadini”. L’antropologo francese vede nel giubileo, nelle liturgie, nel dono, una parentela con una economia moderna più giusta e equilibrata, con “spese obbligatorie dell’edile”, maggiori spese sanitarie e per l’educazione. Mauss chiede ai suoi contemporanei “più generosità nei contratti di lavoro, nelle locazioni di immobili, nella vendita di generi necessari”.

L’intenzione è che, attraverso lo studio Sul Dono, si trovi “il mezzo per limitare i frutti della speculazione senza, dall’altro lato, creare l’eccesso di generosità e il comunismo”, che sarebbero “non meno nocivi dell’egoismo dei nostri contemporanei e dell’individualismo delle nostre leggi.” Economie che si affidano troppo al principio del calcolo microeconomico possono perdere di vista l’equilibrio macroeconomico, il bene comune, il suo linguaggio e il suo simbolismo.

Un pensiero simile lo troviamo nel secondo dopo Guerra in Italia. Il critico letterario, saggista e archeologo, Furio Jesi discute, nel 1968, come Mauss nel 1923, la questione del “linguaggio della collettività”. Nel suo saggio Letteratura e mito Jesi para di una “profondità dolorosa dell’esperienza del pensatore e dell’artista, solitario nell’operare dentro di se la guarigione dai mali che minacciano l’umanità” intendendo la “solitaria via d’accesso al vero linguaggio della collettività”. La vera arte però come la giusta politica e l’economia equa, non deve interpretare male questo “linguaggio della collettività”, non deve in maniera inautentica abusare delle forme mitiche e tradizionali.

L’arte, la politica e l’economia possono tradurre la forza espressiva del mito nel mondo contemporaneo, ma devono essere autentiche nella loro traduzione. Jesi vuole metterci in guardia rispetto ad un uso inautentico e manipolatorio dei linguaggi della collettività. Regimi totalitari si reggono oggi come ieri sull’abuso dei miti, dei simboli e delle tradizioni religiose.

Ancora il dibattito politico del 1968 come il dibattito politico contemporaneo ne danno la prova. Scriveva Jesi già nel 1968: “E ciò nonostante la maggior parte dei partiti politici continuano a servirsi di immagini mitiche nella propria propaganda; continuano, cioè, a fondare il futuro sull’accettazione del passato, fidando nell’illusione di lavorare per il progresso, quando invece il subire ciecamente una propaganda fondata sulla tecnicizzazione del mito significa inabissarsi in ciò che il passato ha di morto e di deforme.” (Letteratura e mito, Einaudi Torino 1968 (2002), p.43)

Il sistema finanziario per scambiarsi reciproci bisogni su una piattaforma globale è anche un meccanismo di difesa contro forme abusive, non genuine e tecnicizzate del mito. Il consenso che il liberalismo ha riscosso dalla fine del secondo dopoguerra fino ad oggi si basa su questo fatto storico. Molte forme del libero mercato erano un meccanismo di difesa contro il regresso verso la monarchia, il fascismo, il comunismo, il mito. Ma siamo giunti chiaramente a un punto dove la stessa razionalità del sistema subisce gravi abusi e squilibri. Abbiamo bisogno di un discorso politico, di regole eco- nomiche, di leggi e di mercati che spostano di nuovo l’accento verso quello che Mauss chiama moralità di gruppo” e che Jesi chiama “il linguaggio autentico della collettività”.

 

Whatever it takes

Il progetto Whatever it takes, conscio delle difficoltà storiche, pone nuovamente in dialettica il principio dell’individualismo con un principio altrettanto fondamentale — il discorso sulla “comunità”, sullo “stato” e sul “linguaggio della collettività” anche nell’arte.

È attualmente in corso, uno dei più grandi shock economici del XXI secolo, un evento che sta generando una graduale sfiducia dei cittadini verso i mercati, portando a una crescente domanda dell’intervento pubblico, su cui molte categorie stanno già facendo affidamento. In Italia, il sistema culturale, anacronistico rispetto ad altri paesi europei, sta mostrando tutte le sue più intrinseche fragilità, in particolare verso coloro che rientrano nei settori legati alla creazione artistica contemporanea, spesso legalmente fuori da qualunque perimetro difensivo.

Anche la dimensione sociale, divenuta molto più visibile e molto più rilevante, sta radicalmente cambiando in seguito all’innalzamento di “muri” non solo tra stati ma anche tra individui, rimettendo in discussione le dinamiche intergenerazionali, nonché i nazionalismi territoriali.

Partendo da questi presupposti concettuali, è nata una riflessione su come il progetto Whatever it takes riesca ad affrontare tali problematiche, e quale possa essere la modalità più efficace per far sì che durante l’evento si inneschi un processo creativo e inclusivo. Ispirandosi alla pratica antropologica del Dono reciproco, esaminata dal noto saggio di Marcel Mass del 1923, si è giunti all’idea di creare un mercato, un luogo di scambio fisico, simbolico e di incontro dove l’aspetto economico è indissolubilmente legato a quello sociale. Ragionando su tale tema, si è anche analizzata l’origine e la funzione del denaro.

Già Aristotele formula due differenti teorie sul denaro nei suoi scritti. (Defalvard, 1991). Nella Politica, il denaro viene identificato come uno strumento messo a punto dai singoli individui privati per superare la difficoltà della realizzazione di una doppia coincidenza dei bisogni. Nel baratto ciascuna delle parti coinvolte deve essere pronta a offrire in un luogo e in un tempo specifico il bene che l’altra desidera, nella quantità esattamente richiesta.

La moneta, una merce tra le altre con il vantaggio di essere accettata sempre da tutti, assumerebbe la funzione fondamentale d’intermediario. Questo spiegherebbe perché essa abbia assunto originariamente forme quali oro o argento. Una teoria sull’origine della moneta che presuppone come essa sia nata spontaneamente dai mercati e non dalle autorità tribali, culturali, nazionali o statali.
Tale tesi riscontrabile anche nell’opera The Wealth of the Nations di Adam Smith, pubblicata nel 1979, ancor oggi alla base di molte tesi economiche che sostengono l’importanza dei mercati globali liberalizzati.

 

Whatever It Takes - School for Curatorial Studies Venice
Whatever It Takes – School for Curatorial Studies Venice

È anche presente nelle teorie che promuovono la cosiddetta austerità, ispirata dalla scuola Austriaca/Americana di Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek e in una certa misura anche dall’ ordoliberalismo tedesco del dopoguerra fino ad oggi. (Blyth, 2013)

Un secondo approccio di Aristotele alla tematica, presente invece nell’Etica Nicomachea, identifica la nascita della moneta con la sua funzione di unità di misura nel contesto del sociale e dello stato. Una volta accettata come unità di conto, la moneta, spettando all’autorità politica la scelta dell’unità di misura e l’imposizione di quest’ultima ad esclusione di ogni altra, può assumere agevolmente le funzioni ulteriori di mezzo di pagamento e di riserva di valore. Ciò spiegherebbe l’idea secondo la quale la moneta sarebbe una convenzione legale che non ha bisogno di un supporto dotato di valore intrinseco per svolgere le proprie funzioni.

La moneta si configura quindi come un’istituzione, come un’unità per misurare la forza lavoro e i reciproci bisogni, una regola fatta rispettare dall’autorità politica. Questa idea sull’origine del denaro che nasce dalla comunità, dai sistemi di tassazione e dall’ organizzazione statale è ripresa nel 1902 in Germania da Georg Friedrich Knapp, come anche successivamente in Inghilterra da John Maynard Keynes e in America durante la Grande Depressione. Attualmente, la centralità dello stato nella politica monetaria e fiscale è evidenziata anche dalla Modern Money Theory. (Wray, 2015).

Non è questo il luogo per decidere la vera origine del denaro, se è venuto spontaneamente alla luce in un mercato tra singoli individui o se è stato piuttosto la creatura di una comunità con le sue forme di tassazione e contribuzione per poter realizzare opere pubbliche. Dopo le ricerche di Jacques Derrida e Michel Foucault sulla difficoltà di poter risalire a qualsiasi concetto di origine, definirla sarebbe anche impossibile.
E’ più interessante chiedersi: cosa succederebbe se venisse meno l’elemento del denaro nel processo di transizione? Quali sarebbero le implicazioni conseguenti a questa rimozione? Esistono davvero dei metodi alternativi al denaro che siano in grado di soddisfare le necessità e di mantenere un’organizzazione stabile e duratura?

Attraverso le ricerche etnografiche di Franz Boas (Boas, 1897) sul potlach (scambio di doni tra le comunità native americane), e di Bronislaw Malinowsky (Malinowsky, 1922), sul kula (cerimonia rituale finalizzata alla creazione di connessioni nelle comunità del pacifico), — Marcel Mauss, nel Saggio sul dono (Mauss, 1923) analizza lo scambio di beni come metodo universale per creare relazioni umane. Fin dall’antichità, nei sistemi economici e giuridici, si effettuavano scambi e le collettività si obbligavano reciprocamente in quanto entità composte di persone morali.

Lo scambio non era costituito solo di oggetti, bensì di rituali, danze, cortesie, regali e tutta una serie di fattori relazionali che costituivano i termini di un contratto molto più ampio. Mauss nel suo scritto, definisce il dono come “fatto sociale totale” che sta alla base dell’economia delle società tradizionali, dove la circolazione delle merci non dipende dalla compravendita ma dal principio di reciprocità, composto da tre obblighi fondamentali: il dare, il ricevere e il ricambiare. Per “fatto sociale totale” si intende un fenomeno legato a tutti gli aspetti della vita sociale, un fattore in grado di coinvolgere qualunque livello della società.

Il dono, avente valore sia materiale che simbolico, funge da collante per la comunità e da strumento per costruire alleanze. Ha, inoltre, la doppia funzione di far circolare i beni materiali e di mantenere unita la società, evitando il conflitto. Il principio di reciprocità, in quanto fattore in grado di costruire una rete di relazioni, si presenta a più livelli anche nella contemporaneità; un esempio potrebbero essere le cosiddette banche del tempo.

Nate da un esperimento dell’anarchico americano Josiah Warren nel 1827, le banche del tempo hanno avuto uno sviluppo globale per tutto il corso del XX secolo, soprattutto in quei periodi storici caratterizzati da una situazione economica precaria e da una scarsità di risorse pubbliche e private (Caluccia, 2003).

Il principio fondamentale che regola le banche del tempo è la sostituzione del denaro, in quanto merce, con il “tempo” inteso come attività, servizi e prestazioni. Situate spesso nei quartieri più sensibili delle grandi metropoli e delle città ad alta densità abitativa, le banche del tempo ancor oggi si dimostrano in grado di sopperire sia ai bisogni materiali sia relazionali dei cittadini, divenendo esempi concreti di azioni rivolte alla promozione del benessere e all’inclusione sociale.

Valutandone la rilevanza e prendendo quest’ultime come modello, abbiamo ritenuto essenziale includere nel progetto Whatever it takes anche il tempo come merce di scambio, dando la possibilità agli attori coinvolti, di pattuire per iscritto un informale gentlemen’s agreement, un atto di fiducia, in cui le due parti s’impegnano a rispettare il baratto.
Muovendosi in antitesi rispetto a un approccio istituzionale e formale di mostra, si è voluto dare spazio, in egual modo, agli artisti e al pubblico, rendendoli protagonisti attivi, creando un evento basato su un’equazione differente: l’eliminazione del denaro nel processo di scambio a favore di relazioni umane concrete, opere e competenze. Ispirandosi all’opera di Marcel Mauss, il fine è innescare una dinamica relazionale basata sulla fiducia, la reciprocità, anche continuativa nel tempo tra gli attori coinvolti.

Whatever it takes favorisce uno scambio qualitativo volto allo sviluppo di relazioni umane in grado di rispondere alle necessità degli artisti e dei fruitori, con l’ambizione che le nozioni teoriche, finora esplicate, possano attuarsi, costituendo il preludio di quella che potrebbe rivelarsi una pratica concreta e duratura nel tempo. Whatever it takes si pone dunque come un esperimento di stampo sociale, mosso dal desiderio di creare una comunità sinergica, umana e simbolica che sia in grado di colmare le crepe del sistema economico contemporaneo.


– via: Art Vibes submission – images courtesy of: School for Curatorial Studies Venice


Exhibition info: Whatever It Takes, a cura di School for Curatorial Studies Venice. Un mercatino del baratto di tre giorni, dove il denaro è completamente bandito per essere sostituito da oggetti, tempo e competenze, uniche forme di scambio accettate per ottenere le opere esposte dagli artisti, principali protagonisti dell’happening.

When: 25-26-27 settembre 2020.
Where: Galleria A plus A, Venezia.


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