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Bellezza, identità, arte e riproducibilità: i nuovi "esteti" inconsapevoli ai tempi di TikTok

Bellezza, identità, arte e riproducibilità: i nuovi “esteti” inconsapevoli ai tempi di TikTok

| On 12, Nov 2024

Il nuovo turismo culturale orientato dai trend dei social: la Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Roma invasa da centinaia di TikToker.


di Francesco Spaghi


Picture:Gloria di Sant’Ignazio” (dettaglio), 1685, quadratura di Andrea Pozzo, Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Roma. image via: santignazio.gesuiti.it


E’ bastato un semplice specchio inclinato e un video pubblicato su TikTok per trasformare la Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola a Roma in una meta di pellegrinaggio per pecore da gregge.

La chiesa in Campo Marzio è aperta a tutti e non prevede alcun ticket di ingresso, ma se nei giorni scorsi erano in pochi quelli che vi passavano davanti, oggi dalla navata centrale fino all’ingresso è ben visibile un serpentone di giovani in coda che sconfina fino alla piazzetta sottostante.

Oggetto di tanta attenzione sono le decorazioni del soffitto dipinte da Andrea Pozzo, fratello dell’Ordine Gesuitico, che firmò anche la famosa “finta cupola”, un tipico “sfondato” barocco”, una tela di 13 metri di diametro, sulla quale l’artista ha realizzato l’effetto prospettico di una finta architettura.

La pittura originaria del 1685 è stata distrutta da un incendio, ma nel 1823 è stata riprodotta fedelmente da Francesco Manno, sulla base degli studi lasciati dallo stesso Pozzo.

Voi direte: e che c’è di male nell’ immortalarsi con un selfie sullo sfondo di un’opera maestosa, con la consapevolezza di divulgare attraverso i propri profili social la bellezza di un dipinto meraviglioso. E chi semplificherà senza comprendere dirà: “benedetto sia questo specchio perché almeno così ha avvicinato orde di ragazzini all’arte, introducendoli a luoghi dove potenzialmente non avrebbero mai messo piede”.

Il vero problema è che questi inconsapevoli “esteti” non si rendono minimamente conto di quello che stanno facendo. La questione è che si sta scambiando il fruire un’opera d’arte e il godere della sua magnificenza con il vacuo “rituale” di replicare un gesto moderno, quel “creare un contenuto” (frase urticante laddove pronunciata da chi non sa nemmeno cosa sia un contenuto), non perché si è a conoscenza di quello che si sta condividendo, ma solamente perché tutto rientra nell’inevitabile processo del cavalcare il trend topic del momento. Condividere per esistere e non esistere per condividere.

Qui è l’arte che finisce in mezzo a questo grottesco teatrino moderno, dove basta saper armeggiare uno smartphone, riprendere qualcosa di cui non si comprende senso e bellezza e condividerlo con gli altri, attendendo like, cuoricini, nuovi follower e tante condivisioni.

Ecco, allora sarebbe bello che questi ragazzi comprendessero l’importanza della riscoperta di quell’ “hic et hunc” dell’opera d’arte, perché “la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova”.

Walter Benjamin nel suo celebre saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” sembrava già aver colto in parte le potenziali derive che l’arte avrebbe potuto patire sotto il vigore di regimi “tecnici” e ad oggi pare più che confermata la tendenza dei moderni strumenti contemporanei di riproduzione delle opere d’arte, inclini più che mai a spegnere le scintille di autenticità, ad annullare l’”aura” e a svilire il peso qualitativo e “cultuale” delle opere in relazione all’incremento del valore della loro “esponibilità”.

Forse quello specchio inclinato verso l’alto andrebbe mantenuto dritto così da aiutare i tanti professionisti del selfie a guardarsi attraverso quello specchio per intravedere frammenti di identità perduta e per cominciare a non “subire più la vita”, innescando un nuovo “vedersi vivere” di Pirandelliana memoria.


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